Domenica mattina

La domenica mattina si doveva andare alla Messa, perché non lo so, si usava così. A me piaceva quello che succedeva dopo. Mi trattenevo al circolino accanto alla chiesa, avevo il permesso di comprare il Boero e i goleador, così aprivo la mia borsa da adulta col portafoglio verde di Paperino e la pezzola, pagavo e controllavo il resto. Compiuti questi gesti che mi conferivano nella mia testa un’età compresa tra i venti e i trent’anni, andavo alle panchine dove si ritrovavano i ragazzi grandi (qualche anno più di me, motomuniti) e dove c’era quello che mi piaceva. Camminavo lenta, per poter sentire quello che dicevano e cercavo di farmi notare. Non succedeva mai, ma non perdevo la speranza. Un giorno una delle mie amiche, straziata dalle mie lamentele sul fatto che lui nemmeno mi guardasse, mi fece passare da casa sua prima della messa. Lei era una ganza, per me una specie di marziana: la sua era una famiglia ricca, viaggiavano tanto, spesso era assente da scuola non come me perché mi ammalavo, ma perché era a Parigi o Londra con i suoi. Ci riportava sempre dei regali bellissimi, a me e altre 3 che considerava le sue migliori amiche. Ricordo una volta mi mandò dalla Sardegna una cartolina fatta completamente di sugherò, una cosa mai vista. Aveva la Kodak per fare le foto mentre provavamo a casa sua le coreografie delle canzoni (lei aveva lo stereo e la musica buona dei suoi fratelli più grandi). Studiava danza e voleva fare una tournée con noi, ecco perché facevamo le coreografie. Io danza non me la potevo permettere, così dopo tanti pianti, il babbo mi iscrisse a ballo liscio alla casa del popolo. Insomma quel giorno partii un po’ prima e andai da lei, come da sue istruzioni. Mi prestò uno dei suoi vestiti, un abitino azzurro corto, un tubino, col colletto a V bianco, una V molto profonda, mi fece calzare dei sandali bianchi, con il tacco, poi mi chiese se poteva truccarmi un po’. Mi mise del rimmel e un filo di lucidalabbra. Non sembravo più io, che di solito indossavo camice larghe, pantaloni di jeans e scarpe da ginnastica. Insomma non ero io, in verità, ero io come mi vedeva la mia amica se fossi cresciuta nella sua famiglia. Andiamo alla messa, andiamo al circolino, Boero, Goleador, panchine. Cammino lenta, e, come mi aveva suggerito la Lella, cerco di incontrare il suo sguardo e finalmente ci riesco. Lui mi sta guardando. E ora che ci faccio col suo sguardo? Devo sorridere? Devo presentarmi? E se non gli piace il mio sorriso? E se non gli piace la mia voce o il mio nome (il mio nome lo odiavo io, figuriamoci lui)? E se mi prende in giro? In tutto questo deglutisco e la saliva mi va di traverso e comincio a tossire facendo con uno strano cupo rumore ogni volta che cercavo di riprendere fiato. Sono scappata come potevo con la mia amica che cercava di aiutarmi, ma aveva già fatto abbastanza. Ho smesso di tossire dopo dieci minuti e ho cominciato a piangere. Finalmente il ragazzo che mi piaceva mi stava guardando e io ho cominciato a fare il verso della capra che muore. Che vergogna! 

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