Storia di un corpo (cit)

Non mi è mai piaciuto il mio corpo, soprattutto da ragazzina. Devo aver ricevuto informazioni di ritorno che mi hanno fatto capire che non fosse bello. Per mio padre sono sempre stata grassottella e mi ha consigliato spesso, per il mio bene diceva, di dimagrire. Qualcuno mi deve aver detto che ho le gambe storte perché se non hai tre buchi le gambe non vanno bene. Quali sono i tre buchi? Quello tra la caviglia e il polpaccio, quello tra il polpaccio e il ginocchio, quello tra i due interno coscia. Le spalle troppo grosse, per non parlare del seno abbondante, mi hanno sempre fatto apparire “giunonica” con buona pace del mio desiderio di essere piccola e invisibile. Poi i peli, i peli sulle braccia e sulle gambe, tantissimi, molti e scuri, che anche quando facevo la depilazione continuavano a mostrare ogni follicolo pilifero che si irritava e rimaneva rosso fino allo sbucare del nuovo pelo, cioè tre/quattro giorni massimo, perché questo tempo durava la mia epilazione. E infine il culo. Non avevo mai pensato che il culo avesse importanza, e poi chi se lo vede, finché un ragazzetto diciottenne alla me quindicenne non saltò fuori, non mi ricordo per quale motivo, con un “Non sei male, ma cambia il culo, è un culo basso e schiacciato, non è bello”. Uno schiaffo in piena faccia che non ti aspetti. E ci pensi e ci ripensi, perché, come sempre, credere alle cose spiacevoli senza metterle minimamente in dubbio è molto più facile che credere ai complimenti. Così ho sempre cercato di coprirlo questo corpo che percepivo brutto e per niente attraente: maglioni enormi, felpe giganti, pantaloni larghi, niente che lo mettesse in evidenza, non si doveva vedere, così potevo avere qualche chance di piacere a qualcuno. D’estate diventava tutto più difficile: non ho mai indossato un vestitino leggero e corto, MAI, sempre in pantaloni e magliette giganti e orribili. E al mare, bianca come il latte, ma davvero, ero riflettente, con però tutti i puntini rossi al loro posto, passavo giornate a coprirmi con pareo e asciugamani, vergognandomi come una ladra. Il tempo è passato, ho cominciato a puntare tutto sul mio futuro e per un bel po’ è stato come se non avessi un corpo, non me ne occupavo se non per un minimo di mantenimento, pensavo solo a completare gli studi e trovare un lavoro. Tutto è andato avanti senza grossi intoppi, ho trovato persino qualcuno che si è invaghito di me al punto da sposarmi, uno di bocca buona evidentemente, fino alla pandemia e al  lockdown. Mi ero licenziata da un anno e lavoravo in libera professione, quindi, data la chiusura di molte attività legate alla mia, mi tenevano a casa alcuni giorni la settimana. Avevo un sacco di tempo che non avevo da un sacco di tempo. Che faccio? Bilancio di vita, ovvio. Anche perché il clima psicosociale era ideale. Ho cominciato a pensare agli aspetti della mia vita che mi piacevano e a quelli che non mi piacevano o comunque non mi appassionavano, alle cose che mi rendevano felice. Ops. La pagina è quasi vuota. Dove sono? Dove sono io felice? Sì, insomma, divertita, leggera, serena, ironica, sicura di me, con la paura che non mi domina. Non ci sono. Da nessuna parte. Così ho cominciato a cercare qualcosa che mi desse buone sensazioni e ho scoperto che fare foto soprattutto a me stessa mi rimetteva in contatto con me, col mio corpo, ormai completamente dimenticato. In alcune mi piacevo addirittura e le postavo su qualche social. Le apprezzavano anche gli altri, così ho continuato e ho capito che avevo fame di approvazione, di attenzione, di sentirmi speciale e di esserlo, per qualcuno. Ancora io e il mio corpo non andiamo molto d’accordo, ma non me ne vergogno più come una volta, anche se forse ora ne avrei più motivi, perché l’insicurezza nasce e cresce su un terreno favorevole create da chi ti sta intorno e che tu annaffi, gli altri spesso inconsapevolmente, tu quasi mai. Perché quando sei una ragazzina non capisci l’affetto e la leggerezza con cui ti vengono dette la maggior parte delle cose, tu le ricevi come pesanti pietre che carichi sulle spalle, finché non decidi di ignorarle o di farti schiacciare. Alla fine sono stata fortunata, perché non mi sono fatta schiacciare, però mi hanno condizionato tanto, forse tutto e allora un po’ mi ci viene da piangere. L’unica cosa di cui vado fiera è che sono riuscita a trasmettere a mia figlia che, tranne che non danneggi la salute, l’aspetto fisico non conta, non esiste il brutto, esiste solo il nostro modo di guardare.